Trascrizione puntata con Dina Basso
Benvenuti, sono Veronica Tinnirello e questo è Il Rubino, una trasmissione dedicata alla nuova poesia italiana. Oggi parleremo di e con Dina Basso, della sua prima opera Uccalamma, La Bocca dell’anima, edita da Le voci della Luna e ascolteremo i branselezionati da Dina: Canzoni Addinucchiata di Cesare Basile e Equivoci amici di Lucio Battisti.
Come già anticipato oggi incontriamo Dina Basso, classe 1988. Cresciuta a Scordìa in provincia di Catania, pubblica alcune poesie in dialetto siciliano su la Gazzetta ufficiale dei dialetti per la casa editrice Prova d’Autore e sulle riviste Le Voci della Luna, Tratti, Periferie, Gru. Con la sua opera prima, Uccalamma – Bocca dell’anima edito nel 2010 da Le voci della luna, ha vinto per la sezione “Autore Giovane” il Premio Gozzano (menzione speciale al premio Carducci 2011)
Dina legge un testo da Uccalamma, La bocca dell’anima
A prima vota
ca ni curcammu anzemi
fu a notti do terremotu,
e mentri i casi cascaunu
e sutterraunu i picciriddi,
nuautri n’arriminaumu ’nte linzola,
carni ccu carni.
Nun sulu tu,
macari a terra mi vosa avvisari,
c’avissa statu chiantu
e sangu e sudura,
u nostru juncirini,
viviri,
parrari.
La prima volta / che siamo andati a letto insieme / è stata la notte del terremoto, / e mentre le case cadevano / e sotterravano i bambini, / noi ci rigiravamo tra le lenzuola, / carne con carne. // Non solo tu, / anche la terra mi ha voluta avvisare, / che sarebbe stato pianto / e sangue e sudore, / il nostro unirci, / bere, / parlare.
Veronica: Ciao Dina, benvenuta
Dina: Ciao
Veronica: Ci hai appena letto un testo tratto dalla tua opera prima Uccalamma, La bocca dell’anima... Un’unica sequenza di 53 testi in versi liberi. Perché Uccalamma?
Dina: Ho scelto questo titolo perché è un punto centrale dell’organismo…Sta al centro ed è la bocca dello stomaco dove si sentono le emozioni, gli appetiti sia quelli positivi che quelli negativi. Mi piaceva all’inizio la parola quindi pensavo che fosse solo un’attrazione fonica poi invece mi sono resa conto che essendo un punto di scambio tra l’interno e l’esterno poteva presentare bene la mia concezione di poesia. E quindi uccalamma fu.
Veronica: Leggendoti infatti si percepisce chiaramente che il rapporto del tuo io poetico con il dentro e il fuori da sé è veicolato da azioni fisiologiche, prettamente carnali o comunque legate alla sfera del cibo. Per esempio scrivi: ”perché se una sera non mangio/ non mi riconosco,/ e ficcarmi cose dentro/ è l’unico modo/ per sentire che ancora/ vivo.
Dina: Sono una di quelle persone che pensa che il corpo possa essere un punto di partenza quando si scrive poesia anche se qualcuno definisce questo modo di fare poesia ombelicale e mi fa molto ridere questa cosa perché quando eravamo un feto dall’ombelico traevamo nutrimento. Non vedo un’accezione negativa in questo ritornare diciamo così alla pancia. Non vuol dire fermarsi alla propria pancia ma può voler dire anche parlare alle pance degli altri. Poi il cibo appunto non lo vedo come semplicemente una preparazione ma come qualcosa di culturale che viene elaborato, viene vissuto, viene incamerato. È un rapporto costante con l’esterno. Quindi mi sembra riduttivo parlare di questo solo in termini corporei, dispregiativi.
Dina legge un testo da “Uccalamma, La bocca dell’anima”
M’ammugghiatu a muta a muta
comu a vastedda ‘ntò pagghiazzu,
m’a tagghiatu feddi feddi
– ma ‘ppujata ‘ntò pettu
cco cuteddu curcatu,
e m’a ittatu fora da casa
comu si levunu i muddichi
supra a tuvagghia,
a fforma di llisciata.
Cchiù ca na fimmina ppi ttia
aju statu ‘n pani ‘i casa,
ca tira na simana
e poi
‘ddiventa petra.
Mi hai avvolta senza dire nulla/ come la pagnotta nello straccio,/mi hai tagliata a fette/- ma appoggiata al petto/ col coltello di lato,/ e mi hai buttata fuori di casa/ come si tolgono le molliche/ sulla tavoglia,/ col gesto di una lisciata;/ più che una donna per te/ sono stata un pane di casa,/ che dura una settimana/ e poi/ diventa pietra
Veronica: Abbiamo ascoltato Canzoni addinucchiata di Cesare Basile. Quando ho contattato Dina le ho chiesto, oltre alle poesie di portare una sua selezione musicale, qualcosa che le fosse molto vicino. In questo caso ti scopriamo coautrice insieme a Cesare Basile della canzone che abbiamo appena ascoltato, tratta dall’ultimo album frutto del suo ritorno in Sicilia, del suo impegno nell’ambito dell’Arsenale (Federazione siciliana per le arti e la musica) e del teatro Coppola occupato di Catania. Come è nata questa collaborazione?
Dina: Sì, quando è uscito il mio libro ho inviato una copia a Basile e visto che aveva inciso delle canzoni in dialetto nel suo penultimo disco ho pensato che potesse semplicemente interessargli. Poi da lì è nata una collaborazione abbiam fatto delle cose insieme e mi ha chiesto di scrivere questo testo che appunto è entrato a far parte dell’ultimo disco.
Veronica: Sempre in Uccalamma mi ha colpita una poesia in cui riveli: Quando mi siedo col foglio davanti però/ nella testa ho lo scordioto che mi macina,/ nella bocca l’italiano che mi arrotola la lingua,/ nel petto il napoletano,/ che con Scordìa non c’entra niente,/ ma è la lingua di quando t’incazzi /e di quando scherzi./ E allora la mano si confonde,/ non sa come scrivere[…] La tua lingua poetica per eccellenza è il siciliano. Che legame hai con queste tue radici linguistiche?
Dina: Per me è molto difficile rispondere. E’ un legame altalenante dipende dal momento che sto vivendo. Vivo lontana dalla mia terra quindi non è una lingua che pratico ma come scrivevo qualche tempo fa la invento nella distanza come un amore per corrispodenza quindi cerco di viverla in una quotidianità che però non esiste, può essere al telefono coi miei ma è difficile. Le seduzioni dell’italiano sono tante e sono stata una bambina educata all’italiano seppur con una dizione discutibilissima però il dialetto è arrivato dopo nella mia vita.
Veronica: Sempre a proposito di radici e terra natìa, nel tuo lavoro è presente il riferimento ad una genealogia, tipico dei piccoli paesi dove tutti ci si conosce. Si è conusciuti come “figlia di, nipote di” ; tanto che, quasi a creare una cornice domestica, apri e chiudi la raccolta citando una figura totemica, tua nonna Dina. Inoltre in esergo riporti alcuni versi di tuo zio, il poeta dialettale Salvo Basso.
Dina: Sì, è molto difficile affrancarsi dalla propria famiglia perché secondo me la forma che ti da non è solo quella fisica ma anche quella mentale e questo libro era allo stesso tempo un omaggio ma anche una dichiarazione d’indipendenza dalla mia famiglia che mi ha dato tanti pregi ma anche tanti difetti. Penso che comunque non si possa essere altro senza aver scavato profondamnete in quelli che sono i motivi di una famiglia che si tramandano di generazione in generazione. Penso che ogni famiglia abbia i propri nodi attorno a cui si può lavorare. Mio zio in tutto ciò è stato una figura importantissima perché è stato quello che mi ha fatto scoprire il potenziale espressivo del dialetto ma era un intellettuale quindi una figura di riferimento sin da piccola, sicuramente un modello positivo.
Dina legge un testo da Uccalamma, La bocca dell’anima
T’aju ‘mpastatu
ppiddaveru
comu ma matri m’ansignau
a ‘mpastari u pani,
dicennumi ca
a forza nunn’è ‘nte manu,
è, ‘nte puzza;
e ju m’i rrumpu,
ccu ll’acqua e a farina,
finu a quannu nun su
na sita liscia e citrigna.
Poi ti fazzu,
comu a pasta,
un signali a ccentru
e ti cummogghiu cca cuperta
aspittannu ca crisci,
ogni tantu jennu a taliari
a cchi puntu stamu,
e lassariti ancora ripusari
ppi poi pigghiariti nautra vota
‘nte manu
e stinniriti,
stinnicchiariti.
Ti ho impastato / veramente / come mia madre mi ha insegnato / a impastare il pane, / dicendomi che / la forza non è nelle mani, / è, nei polsi; / e io me li rompo, / con l’acqua e la farina, / fino a quando non sono / una seta liscia e soda. / Poi ti faccio, / come la pasta, / un segno al centro / e ti copro con la coperta / aspettando tu cresca, / ogni tanto andando a guardare / a che punto stiamo, / e lasciarti ancora riposare / per poi prenderti un’altra volta / in mano / e stenderti, / stiracchiarti.
Veronica: I tuoi testi conservano un rapporto col parlato molto forte. Sergio Rotino, presentandoti sulla rivista “Le Voci della Luna” ti descrive come una Voce onesta fin quasi alla sfrontatezza, tenuta a bada da un’ironia pacata. C’è molta ironia infatti, molto humour nero in questo che io definirei un canzoniere d’amore-domestico anche quando tratti della morte o della lontananza e dell’assenza…
Dina: Sì, l’ironia è uno dei tratti distintivi della mia famiglia, è una delle cose positive che ho ereditato. C’è da dire che si può essere ironici solo dopo aver analizzato a fondo ciò che ci fa star male, ciò che ci da fasidio quindi anche la morte in fondo. Quella che non tollero, che non sopporto è l’ironia del “cambiamo discorso” dello sdrammatizzare per non scendere nel profondo delle situazioni. Ecco quella spero che non mi appartenga né nella vita né nella poesia.
Veronica: Nei tuoi testi spesso si trovano riflessioni metapoetiche. Scrivi: […]ascolta me,/ non serve a niente coprirsi/ tanto quando scriviamo/ siamo sempre nudi[…]. Si sente, nei confronti della materia poetica, il punto di vista dell’artigiana. Mi è piaciuto molto quando in una tua poesia ho letto […]anch’io,/ dalla manovalanza di lettere e accenti,/ a poco a poco mi sono insegnata il mestiere,/ che uno non se lo dimentica/ neanche quando è vecchio,/ neanche quando muore.
Dina: Per me la poesia è artigianato in quanto prodotto culturale. Mai si dica che è la verità quello che scrivi perché scrivere è tradire, mettere in parola significa comunque operare una traduzione, non credo che sia così semplice e che non venga pensato, studiato e anche quindi cambiato il nostro sentimento per andare sul foglio. E’ certo che ho iniziato a scrivere presto quindi lentamente sto accumulando un po’ di strumenti. Ora sono solo all’inizio del percorso e non so neanche che strade percorrerò dal punto di vista poetico.
Dina legge un testo da Uccalamma, La bocca dell’anima
Semu comu du
limitanti da campagna:
nasu ccu nasu
un capiddu anmenzu
ricinzioni
di ferru filatu
e buttigghi ‘i plastica,
u filu ‘i spuzatta c’arresta
dopu ca ni vasamu;
ma a terra nun sapa a ccu
appartena
e sfuncia e sa sparta comu vola,
nun sapa metraturi
– mancu patruna –
canuscia sulu i radichi d’a macchia
e a iddi s’ampica
di iddi sa stacca.
Siamo come due / confinanti di campagna: / naso con naso / un capello in mezzo / recinzione / in fil di ferro / e bottiglie di plastica, / il filo di saliva che resta / dopo che ci baciamo; / ma la terra non sa a chi / appartiene / e deborda e si divide come vuole, / non sa metrature / – neanche padroni – / conosce solo le radici della pianta / e a loro si aggrappa / da loro si stacca.
Veronica: Equivoci amici di Lucio Battisti è l’altro pezzo che hai portato…
Dina: Sono nella scoperta della fase “bianca” di Battisti e ne sono molto attratta perché è la fase in cui Battisti stravolge i fan e l’opinione pubblica perché non rilascia più interviste non fa più neanche concerti, si dedica soltanto alla scrittura con il paroliere Pasquale Panella che… questo testo gli equivoci amici sono proprio dei nomi, delle parole. Ci sembra di ascoltare qualcosa di familiare e invece dentro c’è un inghippo c’è una vocale in più, una consonante in meno e tutto ciò crea disorientamento nell’ascoltatore. E’ un testo molto ironico e come molti testi di Panella di difficile decifrazione. Però rappresenta in qualche modo uno dei miei aspetti, cioè il fatto di essere una persona comunque giocosa e ironica nonostante magari da molti testi emerga un po’ una pesantezza.
Veronica: Oltre a Uccalamma, hai recentemente pubblicato sulla rivista online “Gru” una breve raccolta di inediti, che s’intitola Monili.
Dina: Uccalamma adesso è un libro che mi ha portato molta fortuna perché ho girato tantissimo per l’Italia a leggere, ho vinto premi, sono stata apprezzata. Però insomma è venuto fuori dell’altro che è stato raccolto in “Monili” che è un titolo un po’ strano per me perché è un titolo in italiano però mi sono ispirata a un artista che aveva rappresentato la violenza dell’11 settembre come un orecchino, diceva la violenza è un orecchino ce lo possiamo togliere quando vogliamo. Alla fine anche il dolore volevo che fosse un orecchino da togliersi all’occorrenza e per di più anche bigiotteria, qualcosa di un po’ falsotto, un pò pataccone e quindi monili rappresentava un po’ questa forma aggraziata ma allo stesso tempo che non è vero, che non mi appartiene realmente.
DINA legge un testo da Monili
Aju dittu sempri
ca cani nun ni vogghiu,
picchì poi attocca
nun sulu darici a mangiari
ma suprattuttu nesciri
cco caudu o cca nivi
ppi purtalli a sfantasiari:
ma uora,
macari senza cani m’arritrovu,
di notti
e di capumatina,
a purtari ‘nte strati u desidderiu
di vidiriti,
a fallu nesciri,
ca dintra a casa ‘mpazziscia,
e u fazzu pisciari
a ogni cantunera,
spirannu ca poi, tu
passannu di ddà
u senti u fetu di mia,
e continui sciarannu l’aria
a ma stissa
prucissioni.
Ho detto sempre / che cani non ne voglio, / perché poi tocca / non solo dargli da mangiare / ma soprattutto uscire / col caldo o con la neve / per portarli a svagare: / ma ora, / pure senza cani mi ritrovo, / di notte / e di mattina presto, / a portare nelle strade il desiderio / di vederti, / a farlo uscire, / che dentro casa impazzisce, / e lo faccio pisciare / ad ogni angolo, / sperando che poi, tu / passando di lì / la senti la puzza di me, / e continui annusando l’aria / la mia stessa / processione.
Veronica: E’ arrivato il momento di salutarci. Grazie a Simonluca Laitempergher per tutta l’assistenza tecnica. Vi ringrazio per averci ascoltati. Grazie Dina.
Dina:Grazie a te.